IL CULTO DEI MORTI
Gli aspetti assunti dal culto dei morti in Etruria ebbero risvolti estremamente particolari.
Mentre la povera gente era sicuramente sotterrata il giorno stesso della morte, nel caso dei funerali di personaggi aristocratici, questi iniziavano nella casa del defunto. Si riteneva che la morte sopraggiungesse nell’individuo quando l’anima , uscendo dalle labbra come un soffio assieme all’ultimo respiro, lo abbandonava. Allora, lo si chiamava a gran voce per tre volte, dopodichè, constatata la sua morte, il corpo era lavato, sparso di unguenti aromatici e vestito, poi, dopo avergli chiuso gli occhi, veniva esposto su un catafalco, ornato di fiori e ghirlande, nel cortile sotto una tenda coi piedi rivolti all’ingresso. Contemporaneamente si dava inizio al banchetto funebre.
Iniziava quindi il rito del pianto e dei lamenti funebri, in genere affidato alle donne, mentre dei musici accompagnavano le cerimonie in cui erano previsti anche danze, giochi e corse di carri (queste ultime divennero parte essenziale dei giochi funebri dopo la battaglia di Alalia quando vennero importati in Etruria per un oracolo delfico).
Questa liturgia, almeno sino al VI secolo a.C. era eseguita dai famigliari. Successivamente questi atti e questi gesti, ritenuti disdicevoli per i membri dell’aristocrazia etrusca, vennero affidati a persone pagate per occuparsi di dette funzioni.
La casa, nella quale il focolare era spento in segno di lutto, era accuratamente spazzata (la scopa aveva un potere apotropaico, che scacciava gli spiriti malvagi) e veniva contrassegnata all’esterno da una frasca di cipresso o di altro albero o con frutti scuri, per segnalare a distanza l’impurità agli altri membri della comunità.
Questo concetto che la morte rendesse funesta non solo la casa ma anche la famiglia del defunto, obbligava i parenti del morto e tutti coloro che erano stati in contatto con lui, a distaccarsi dalla comunità stessa; questi restavano estranei da ogni attività sociale finché non si liberavano dal contagio, adempiendo ai i riti della sepoltura con i quali si sanciva, in maniera definitiva, la separazione del defunto dalla società dei vivi e la sua aggregazione all’al di là.
Trascorso un periodo di nove giorni, il corteo dei parenti in abiti neri accompagnava il defunto in prossimità della tomba, dove si teneva un’altra esposizione del corpo.
Se il defunto doveva essere cremato, veniva condotto, probabilmente di notte, nei pressi della sepoltura (sempre fuori delle mura cittadine). Nei pressi della tomba era stata intanto sistemata la catasta di legna sulla quale era deposto il cadavere sul suo letto insieme agli ultimi doni come stuoie, stoffe, sostanze odorose, fiori, forse anche focacce o altri cibi ed altri oggetti di particolare distinzione.
Uno dei parenti poi, voltato all’indietro per non incorrere nella maledizione del defunto, accostava la torcia sulla catasta; in questa fase è probabile che si utilizzassero particolari essenze legnose per coprire l’odore acre della carne bruciata.
Quando la legna era consumata, spenti con acqua gli ultimi tizzoni, si raccoglievano con cura le ossa in un panno, le si lavava anche con il latte o il vino, le si asciugava e le si deponeva nell’urna avente forma, almeno in parte, umana.
Giova ricordare che il rito dell’incinerazione potrebbe risalire alla scarnificazione eneolitica; infatti all’epoca si riteneva che l’anima non sarebbe potuta penetrare nel mondo ultraterreno, fintanto che non si fosse liberata dal corpo: per cui soltanto distruggendo l’involucro corporeo l’anima si liberava da ogni legame con il mondo dei viventi.
Prima di introdurre le spoglie del morto nel sepolcro era ucciso un animale e il sangue serviva a placare l’anima del defunto; a questa usanza che sostituì quella ben più crudele dell’uccisione di prigionieri di guerra, si accompagnò l’uso di giochi gladiatori e di abilità il cui scopo era essenzialmente quello di trasmettere vitalità e forza al defunto.
Al banchetto funebre che seguiva sulla tomba, si pensava partecipasse anche l’anima del defunto: per lui erano quindi deposte sulla fossa anche alcune parti di animali arrostiti.
Il banchetto funerario serviva inoltre a purificare i presenti, che, dopo la cerimonia, si sottoponevano a fumigazioni lustrali ( da fumum, proviene il termine “profumo”). Recenti scoperte hanno dimostrato che anche in Etruria, almeno a livello di classi aristocratiche, l’incenso era conosciuto. L’incenso, rinvenuto in grani accanto ad incensieri, era comunemente trasportato nell’antichità dai Fenici lungo le vie dell’incenso e delle spezie.
Chiuso il sepolcro e passati altri nove giorni, seguiva un sacrificio finale e il luogo di sepoltura era definito inviolabile per i viventi.
Il banchetto che allora vi si celebrava era quello definitivo e prevedeva cibi rituali specifici per i morti, come uova, lenticchie, fave, sale e veniva consumato dai parenti del morto che, ormai purificati, tornavano alla comunità chiudendo l’isolamento.
La credenza che il defunto permanesse fisicamente all’interno dell’ipogeo, comportò che lo stesso venisse configurato il più possibile ad imitazione della casa, e fosse al contempo dotato di tutto il necessario per soggiornarvi.
Molto significativa a questo riguardo era l’offerta delle provviste che accompagnava il corredo del defunto: dai cereali, alla frutta come nocciole, uva, mele, melagrane, miele, ad alimenti come latte, vino, formaggi, focacce, budini, minestroni (questi ultimi simboleggianti una sorta di rinascita).
L’ingresso della tomba, una volta chiuso, era “protetto” da immagini mostruose (sfingi, centauri o chimere) ed allusive al viaggio oltremondano su mostri marini (Giovane su Ippocampo), mentre all’esterno, su altari, avvenivano le pratiche sacrificali affinché il morto conseguisse uno speciale stato di beatitudine.
Peraltro, almeno in determinate epoche, al defunto di rango aristocratico, erano immolati dei cavalli, deposti poi nel dromos (strada di accesso) della tomba, come anche dei carri, rinvenuti in deposizioni sia maschili che femminili, (nel caso di deposizioni maschili si tratta una biga, di una triga o di una quadriga su cui si stava in piedi, mentre alle tombe femminili, si associano soprattutto calessi, trainati da muli su cui si stava seduti), oppure dei piccoli animali come colombe.
Tanta ostentazione, pur non evitando che anche il morto di nobile estrazione andasse incontro ad un destino spietatamente triste, aveva innanzitutto un risvolto sociale; le esequie di un individuo rappresentavano infatti una sorta di banco di prova per le risorse economiche ed il prestigio stesso della famiglia. Si trattava in sostanza di una sorta di “ … periodica verifica dello status cui ci si preparava …. accumulando beni, procacciandosi artigiani, cercando il meglio per un complesso di opere che erano apprezzate nella misura in cui rispettavano la finzione di servire solo ed esclusivamente al defunto.”
G. Colonna, Il culto dei morti, “Civiltà degli Etrusci” , p. 290, 1985.
A partire dagli inizi del VI secolo a.C., almeno la struttura esterna dell’ipogeo, viene sottoposta a regolamentazione; alle tombe a camera non si accompagnano più i tumuli anche se, come a Vulci, queste, tanto più sono semplici, tanto più il loro corredo è ricco.
Tra il V ed il IV secolo a.C. la credenza che il morto sopravvivesse nella tomba venne meno sotto l’effetto degli influssi derivati dalla cultura greca.
Ad essa si sostituì la concezione di un mondo dei morti simile all’Ade o all’Averno, dove le ombre soggiornavano e al contempo, il reiterato bisogno di esteriorizzare il rapporto fra il mondo dei vivi e quello ultraterreno, si manifestò con la costruzione di imponenti architetture esterne alle tombe in maniera che fossero ben visibili dalla città .
VULCI, PARCO NATURALISTICO ARCHEOLOGICO
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