LA TOMBA D’ISIDE
Il periodo compreso fra gli anni finali dell’ VIII e la prima metà del VII secolo a.C. costituì un momento fondamentale e probabilmente decisivo per la formazione e per l’articolazione della struttura sociale nella città di Vulci.
Già a partire dalla metà dell’ VIII secolo, i corredi tombali testimoniano di un notevole salto di qualità per ciò che riguarda la differenziazione e la composizione degli oggetti che, sino a questo momento, erano caratterizzati da un “egualitarismo” riflesso di un’organizzazione sociale priva di sostanziali differenziazioni.
Tuttavia è da questo momento che la presenza all’interno delle sepolture di oggetti con una chiara connotazione guerriera ed aristocratica, testimonia una articolazione della società in classi sociali che si consolidano e si affermano grazie al controllo sugli scambi commerciali che i coloni calcidesi, stanziatisi a Cuma e Pithecusa, avevano intrapreso con le città dell’Etruria costiera.
Questo processo iniziato durante la seconda metà dell’VIII prosegue nel corso del secolo successivo favorendo quell’ ascesa politica ed economica che a Vulci si manifesta in maniera meno vistosa e repentina rispetto ad altre città dell’Etruria.
A partire dall’ultima fase dell’Orientalizzante, fino al periodo arcaico, a causa del sempre maggior traffico di merci e per il bisogno di “penetrare” e controllare il ricchissimo territorio a nord di Vulci , si assistette alla creazione sistematica e capillare di numerosi percorsi viari che andarono ad affiancarsi alle grandi direttrici commerciali.
Furono così aperte strade che collegavano Vulci con Castel Ghezzo, Tuscania, Saturnia, Castro e Talamone con le quali si compi quell’espansione territoriale avvenuta in maniera estremamente repentina come testimoniano una serie di materiali rinvenuti nelle necropoli di Magliano, Orbetello, Talamone e dell’alta valle dell’Albegna prodotti da artigiani vulcenti operanti in loco.
Questo, in grandi linee è l’assetto del territorio che faceva capo a Vulci intorno al 640 a.C. contestualmente al quale, nel corso del VII secolo dovette compiersi quel processo di urbanizzazione che si concluse con la definizione pressoché risolutiva della città.
Vulci assunse così la sua fisionomia storica con la definizione di un perimetro urbano che trovò i suoi limiti naturali nella stessa conformazione del suolo .
Al contempo, anche se scarsi e di difficile localizzazione urbanistica risultano gli elementi architettonici rinvenuti nell’area della città, tuttavia prospettano concrete possibilità di impegnative soluzioni architettoniche le quali si manifestano compiutamente nel campo dell’edilizia funeraria.
Si tratta di imponenti complessi che ripetono coevi schemi presenti nell’architettura reale; non mancano a questo riguardo esempi quanto mai interessanti costituiti dalla celebre tomba del Sole e della Luna, oggi purtroppo perduta, e dall’ipogeo dei Soffitti Intagliati entrambe rinvenute nella necropoli dell’Osteria.
Quest’ultimo monumento, all’interno del quale vennero rinvenuti materiali riferibili alla metà del VII secolo, è costituito da un dromos d’accesso attraverso il quale si giunge ad uno spazio rettangolare sul quale prospettano tre grandi porte inquadrate da elementi architettonici di tipo dorico; l’ingresso centrale dà accesso alle tre camere di fondo. Particolare cura fu riservata alla decorazione scolpita dei soffitti, soprattutto a quello della camera centrale, che presenta un columen rilevato con terminazioni a disco, dal quale si irraggia una fitta serie di travetti accuratamente lavorati.
Questo motivo è anche ripetuto nelle altre camere funerarie ad eccezione di quella esterna destra ove questo effetto decorativo coinvolge anche la parete di fondo dominata da una monumentale finta porta a rilievo.
Se questo monumento vulcente appare chiaramente ispirato a modelli ceretani e probabilmente realizzato da maestranze di Caere operanti a Vulci su commissione, altrettanto forse si può dire per un altro monumento conosciuto con il nome di “Tomba Costruita”.
Localizzata ai margini occidentali della Necropoli della Polledrara, la struttura venne in luce a seguito di un’ alluvione che si abbatté in questa zona nell’ottobre del 1987, e fu indagata a partire dal 1988 sino al 1993.
I lavori che si sono susseguiti intorno al monumento hanno permesso di definire una struttura estremamente articolata realizzata all’interno di un imponente “sbancamento” operato ai margini del pianoro che domina la sottostante vallata di Legnesina.
Il complesso, edificato poco dopo la metà del VII secolo all’interno di questo spazio, venne realizzato con materiale locale costituito da blocchi di siltite e nenfro accuratamente lavorati.
All’ipogeo si accede tramite un ampio dromos che immette in uno spazioso vestibolo sul quale si aprivano 3 porte pertinenti ad altrettante camere sepolcrali.
E’ probabile che anticamente al monumento fosse ornato con un coronamento costituito da sculture la cui eco rimane nei frammenti rinvenuti durante le varie fasi di scavo susseguitesi nel corso di 5 anni nell’area circostante la struttura.
Particolari accorgimenti tecnici messi in opera dalle maestranze che realizzarono il complesso, garantivano un’ottimale staticità all’insieme dei blocchi disposti e scelti con particolare cura e perizia progettuale.
Il tipo di tecnica edilizia é comune ad altre località dell’Etruria non mancando esempi simili in ambiente ceretano, a Veio, San Giuliano e Tarquinia dove l’opera “pseudo isodoma” viene ampiamente utilizzata per la realizzazione di grandiosi tumuli commissionati e realizzati per personaggi di rango.
La planimetria a sua volta propone una tipologia che diverrà peculiare dell’area vulcente ove ad un ampio vestibolo fa da cornice una imponente facciata; entrambi, molto probabilmente, erano destinati a rimanere in vista funzionalmente ai culti funerari che in questi spazi dovevano essere celebrati.
Oltre al recupero della struttura lo scavo della Tomba Costruita ha permesso di acquisire dati e notizie molto interessanti con il rinvenimento di parte del corredo originario deposto in un fossa quadrangolare scavata presso l’angolo S W del vestibolo.
Si tratta di una serie di oggetti databili fra il 620 ed il 590 fra cui reperti di importazioni dal mondo greco orientale rappresentati da un alabastron di grandi dimensioni.
La tomba della Polledrara rappresenta sinora un “unicum” nell’architettura tombale vulcente ed in origine dovette accogliere le spoglie di almeno due generazioni di defunti esponenenti di quella classe aristocratica protagonista della vita politica ed economica della Città.
Se quindi la Tomba Costruita si pone come il primo esempio del genere nel panorama vulcente, non dovettero mancare definizioni di poco successive che troveranno una formulazione più precisa e funzionale nei tumuli della Cuccumella e della “Cuccumelletta”.
Quest’ultima posizionata a circa 500 m a E rispetto alla Tomba Costruita, si trova ai margini di un nucleo sepolcrale più antico documentato da una serie di profonde tombe a fossa alle quali erano pertinenti materiali risalenti agli inizi del VII secolo a.C.
Lo scavo delle camere sepolcrali che costituiscono il complesso vero e proprio, ha permesso il recupero di una sene di oggetti distribuiti in una fascia temporale compresa fra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.
All’Interno della camera ‘A’, la prima ad essere stata utilizzata, erano presenti, oltre a materiali di produzione locale, anche oggetti etrusco corinzi e reperti di fattura greco orientale rappresentati da due alabastra e da un calice di Chio riferibili all’ultimo quarto del VII secolo a.C(3).
Da questi pochi esempi è evidente come Vulci nel corso della fase finale del VII secolo viva una fase di estremo splendore che si protrarrà inalterato per tutto il VI e per parte del V secolo a.C..
L’intensa rete di traffici che fa confluire nel nostro centro ceramiche ed oggetti di lusso da tutti i più prestigiosi empori del Mediterraneo e segnatamente dalla Grecia e dalla Grecia Orientale, venne particolarmente favorita da un mercato notevolmente ricettivo e molto ben disposto nei confronti di materiali raffinati e preziosi.
LA TOMBA D’ISIDE
La Tomba d’Iside venne scoperta nel 1839 a Vulci a seguito di una campagna di scavi condotta dal Principe di Canino Luciano Bonaparte nella necropoli della Polledrara.
Questa necropoli si estende nel territorio a sud-est della città di Vulci e comprende deposizioni che dalla prima Età del Ferro giungono sino al V secolo a.C. inoltrato.
La tomba così chiamata per la presenza al suo interno di “una statuetta femminile, alta circa due piedi e mezzo che sembra essere Iside… “, probabilmente era costituita da un vestibolo su cui si aprivano due camere.
Molto si è discusso in merito all’omogeneità del corredo e sul reale aspetto di alcuni oggetti; nonostante ciò il valore dell’associazione nel suo complesso rimane tuttora indiscussa e allo stato attuale degli studi, il materiale attribuito alla Tomba d’Iside, costituisce uno dei corredi chiave per la fase finale dell’Orientalizzante Recente (630/20-580 a.C.)
La peculiarità della Tomba d’Iside è costituita, oltre che dal materiale nella sua totalità, soprattutto da una statua votiva in gesso alabastrino (foto 1) e da un busto in lamina bronzea (foto 2).
• La statua votiva in gesso alabastrino è rappresentata in atteggiamento di offerente con la mano destra protesa e la sinistra in atto di stringere un oggetto ora perduto. Vestita con un lungo chitone stretto in vita che lascia scoperti i piedi calzati da saldali, con un mantello ricadente in due lembi paralleli sul davanti, ha il volto inquadrato da una coppia di trecce fusiformi ricadenti sulle spalle e le rimanenti sulla schiena .
L’attribuzione di quest’opera ad un preciso ambiente culturale è discussa.
Il Roncalli la mette in relazione all’opera di “un maestro etrusco, o fortemente etruschizzato, di formazione ionica”; anche la Haynes concorda con questa ipotesi riconducendo questa statuetta ad un ambito culturale prettamente etrusco; lo Hus parla del prodotto di un artista di Rodi che operava a Gela o a Siracusa ; il Cristofani sostenne che l’opera fu importata probabilmente da Rodi e, verosimilmente, creata nel luogo di origine come statuetta di offerente da esporre in un santuario ed anche il Colonna ribadisce questo convincimento sulla provenienza rodia della statua.
• Nel secondo caso si tratta con tutta probabilità ancora dell’immagine di una divinità femminile realizzata con nove lamine di bronzo lavorate ed unite tramite ribattitura.
L’immagine poggia su una base emisferica lavorata a sbalzo con cinque figure (un capro, un grifone, una sfinge, un leone ed un altro quadrupede) in teoria verso sinistra.
La capigliatura, quasi una parrucca riportata, forma bande ondulate sulla fronte, ed una serie di trecce sulla testa e le spalle, realizzate a sbalzo, e ad incisione; a parte sono aggiunte due trecce plastiche, cilindriche, che si dispongono ai lati della testa e scendono sul petto.
Il volto ha struttura massiccia, zigomi sporgenti, mascelle pronunciate, mento ingrossato; l’occhio è di forma amigdaloide, la bocca è segnata orizzontalmente con un taglio netto. Un alto collare segnato ad incisione con rombi e perle scende sul torso, formando alla base un bordo ritagliato a denti di lupo. Le lamine che compongono il torso, apparentemente nudo, presentano i contorni sbalzati e la mano del braccio sinistro piegata sul petto; l’altro braccio doveva sporgere dal busto e reggere con la mano un volatile, sempre di bronzo, con tracce di rivestimento in foglie d’oro. Gli occhi . dovevano essere “originariamente di un materiale diverso, probabilmente pasta vitrea; la parte inferiore della figura è cava.
Riguardo all’interpretazione gli studiosi suggeriscono che il busto potesse rappresentare l’immagine di una divinità, probabilmente della morte o della fecondità e che la datazione sia da porsi in un ambito cronologico compreso nel primo venticinquennio del VI° secolo a.C. I confronti con quest’ opera sono proponibili con materiali rinvenuti nell’area chiusina; in particolare con una statuetta di guerriero in pietra e con la plastica fittile dei canopi che costituiscono un fenomeno proprio di Chiusi e dei vicini insediamenti minori: Castelluccio di Pienza, Sarteano, Dolciano, Castiglion del Lago, Chianciano e Cancelli. Presenze sia pur episodiche sono documentate da una serie di materiali analoghi rinvenuti in un’area geografica molto vasta che, oltre naturalmente a comprendere Vulci (Tomba del Carro di Bronzo e Tomba d’Iside), comprende anche Marsigliana, Saturnia, Bisenzio e l’area veiente-falisca.
Da quanto appena riportato emerge una sostanziale diversificazione di vedute sulla provenienza di questa opera fondamentale nel panorama artistico dell’Orientalizzante Recente costituendo uno fra i più antichi esempi di scultura a tutto tondo rinvenuti in Etruria.
Sulla cronologia dell’opera si ritrova per contro una unità analitica in quanto tutti sono concordi nel collocare la statua nel periodo di transizione fra l’Orientalizzante Medio e l’Arcaismo Maturo.
Oltre alle due immagini di cui sopra, al corredo della tomba appartengono anche
• alcune uova di struzzo che costituivano il corpo-contenitore di un vaso ed avevano ” dei buchi che traforavano siffatte uova di struzzo all’orlo della loro apertura “.
Attualmente il loro numero è di 5; tuttavia sia la relazione della Commissione delle Antichità e Belle Arti del 1840 che il Dennis parlano di 6 uova di struzzo mentre il Micali riferisce di ben nove uova.
Pur considerando la possibilità dell’esistenza di un sesto uovo, in questo lavoro si analizzeranno ovviamente quelli in nostro possesso; la decorazione delle uova di sicura attribuzione è in un caso dipinta e negli altri quattro incisa.
L’uovo di struzzo con decorazione dipinta è tagliato a tre quarti ed il bordo presenta una serie di intacchi regolari. La decorazione si svolge in una zona delimitata in alto ed in basso da due fasce di colore rosso e verde. La scena è caratterizzata dalla presenza di quattro grifoni con lunghe gambe e con il corpo riempito da punti rosso-chiari. Tutti hanno una coda fortemente ricurva e le ali sono alternativamente rosse e verdi. Tre di questi grifoni sono separati da piante lievemente inclinate con grandi foglie lanceolate.
Delle altre quattro uova il primo è decorato in alto ed in basso della zona centrale da una fascia con boccioli e fiori di loto su archetti intrecciati. La catena superiore di fiori di loto è sormontata da una serie continua di dentelli dalla punta inferiore arrotondata. Nella fascia centrale sono una leonessa che azzanna un ariete; davanti alle zampe anteriori dell’ariete è un cane. Di seguito sono un cervo ed un altro animale pascenti. Due felini con i corpi rivolti in direzione opposta inquadrano la scena in cui compare un leone che azzanna un toro con le zampe anteriori ripiegate.
Il secondo uovo di struzzo inciso ha una decorazione zoomorfa nella fascia centrale ove si distinguono due coppie di grifi affrontati; dietro alla prima coppia è una leonessa
(?) accucciata. Il fregio si chiude con la figura di un gallo con la testa di grifo seguito da un toro dietro al quale è un piccolo felino accucciato.
Sul terzo uovo è riprodotta una biga condotta da un auriga sulla quale si appresta a salire un oplita armato con scudo e due lance. Fra i piedi della coppia di cavalli è un cane. La biga a sua volta è seguita da un cavaliere dietro al quale è un armato nell’atto di scagliare una lancia. Chiude la scena una teoria di sette opliti armati con scudo e lancia. La decorazione di questo uovo trova dei confronti nel campo della ceramografia con i fregi sull’ Oinochoe della Tragliatella, sull’ Olpe frammentaria di Ischia di Castro considerata una fra le opere più antiche del Pittore della Sfinge Barbuta e su un’ Oinochoe, attualmente al Cabinet des Médailles (n° inv. 179) la cui decorazione figurata è disposta in tre registri; il più importante è quello sulla spalla che riproduce probabilmente una scena legata alla guerra di Troia. Anche in questo caso è da ritenere che il vaso databile al 630-610 a.C. , sia opera di un esponente legato alla tradizione ceramografa del Pittore della Sfinge Barbuta.
Anche la Pisside eburnea dalla Necropoli della Pania di Chiusi, oggetto verosimilmente uscito da una bottega di Vulci e databile alla fine del VII secolo, si inserisce in questo filone decorativo in cui soggetti tradizionali come il carro da guerra, la teoria di opliti ed i combattimenti, derivati dalla ceramografia corinzia, si combinano con temi figurativi nuovi.
Queste figure che impreziosiscono “contenitori” di lusso destinati ad una classe gentilizia locale formatasi intorno alla metà del VII secolo, sono il prodotto di artisti di cultura orientalizzante, i quali, non essendo “condizionati” da una disciplina di “scuola”, “personalizzano” i cicli figurativi tradizionali introducendo immagini e miti “adatti” ad una clientela locale in cui il prestigio del capo-aristocratico è rappresentato dal guerriero che “parte” e nel quale gli opliti costituiscono la milizia personale, la “clientela”.
Nella fascia centrale dell’ultimo uovo è riprodotta una scena che si apre con la rappresentazione di una biga nell’atto di lanciarsi al galoppo; dietro alla coppia di cavalli è un cane; di seguito due coppie di cavalieri. La scena termina con un’altra biga condotta da un auriga barbuto sulla quale si appresta a salire un oplita armato di scudo e lancia. Due fregi vegetali in alto ed in basso della zona centrale ripropongono il motivo con boccioli e fiori di loto su archetti intrecciati. Poiché lo sfondo di queste uova incise, riempito con colore rosso e nero di cui rimangono labili tracce, è leggermente più basso rispetto alla scena centrale, è interessante riportare quanto sostenuto in un vecchio articolo del Petrie che esaminando un frammento di un uovo di struzzo inciso rinvenuto nell’area del tempio di Apollo a Naukratis ha ipotizzato che l’opera d’intaglio sia stata realizzata non con strumenti metallici, ma che lo sfondo sia stato “abbassato” con una sostanza acida (aceto) facendo così risaltare il disegno di un leggerissimo ma netto rilievo.
Altri confronti stilistici con le uova della tomba vulcente sono possibili con alcuni frammenti scoperti nel colossale tumulo della “Montagnola” di Quinto Fiorentino e con un altro uovo di struzzo rinvenuto sul Monte Penna a Pitino di San Severino nelle Marche in una tomba a fossa risalente al 600 a.C (28). I leoni riprodotti nell’uovo dipinto della Tomba d’Iside sono stilisticamente affini a quelli nei due registri della parete di fondo della prima camera della Tomba Campana di Veio e presentano delle rispondenze anche con il fregio del vestibolo rotondo della Tomba degli Animali Dipinti di Cerveteri e con le pitture sempre delle tombe ceretane della Nave I e dei Leoni Dipinti (simili anche dal punto di vista architettonico) tutte datate alla fine del VII secolo.
Per concludere va detto che e Vulci il centro dove questi oggetti venivano decorati da artisti locali ove probabilmente giungevano attraverso canali commerciali cartaginesi.
Dalla stessa tomba provengono inoltre due “portaprofumi” che riproducono due donne sedute.
Di sicura ispirazione rodia come i modelli di questo genere esportati in gran quantità per tutta la prima metà del VI secolo avevano due aperture una nella parte superiore ed una in quella inferiore che ne rendevano impossibile l’utilizzazione. Si doveva trattare in realtà di due oggetti votivi, o perlomeno decorativi, come stanno a dimostrare anche i resti di fragili lamine d’oro che le ricoprivano delle quali si possono ancora vedere tracce sui capelli e sui vestiti lunghi sino ai piedi protetti da calzature stringate. Il corredo inoltre comprende
• 3 a?ßast?a che terminano con un busto femminile le cui mani sono unite sotto il seno. Di due rimane soltanto la parte superiore; il personaggio femminile sul terzo alabastron, ha un uccello nella mano sinistra.
Quest’ultimo esemplare presenta molte analogie con un altro esemplare proveniente da Gela datato alla fine del VII secolo e con un altro alabastron proveniente da Gordion risalente al 600 a.C.
Si è discusso se tutti e tre gli alabastra fossero di produzione locale oppure soltanto i primi due fossero da ascriversi ad un ambito vulcente; il problema è stato risolto analizzando il tipo di alabastro che è risultato essere sempre lo stesso; quindi si può affermare che gli oggetti in questioni risultano essere d’importazione.
• Due piedistalli di pietra, variamente interpretati e posizionati negli anni, erano compresi nel novero degli oggetti del corredo. Quello meglio conservato “ha mantenuto entrambe le sue basi, 1′ inferiore e la superiore, svasate e sporgenti rispetto alla calotta. Al centro della parte superiore e una borchia, leggermente a cupola con un largo bordo dipinto di rosso. Due fasce rialzate, una intorno alla borchia, l’altra quasi a delimitare il bordo della base superiore della colonna, sono evidenziate dal colore rosso. Sulla colonna danneggiata sono visibili due fregi a cassettoni di colore marrone scuro: uno appena sotto la sporgenza della mancante base inferiore, l’altro appena sopra la sporgenza della base superiore. Tracce di un identico fregio dipinto si notano anche sull’altra colonna, immediatamente sopra la sporgenza della base inferiore”.
La ricostruzione proposta dal Roncalli combina uno dei due piedistalli (quello meglio conservato) al busto della statuetta di culto rinvenuta nella tomba.
La Haynes per contro e convinta che “essendo il diametro originale della base superiore di una delle colonnine (quella meglio conservata) di una misura di gran lunga superiore a quella oggi visibile, la parte inferiore del busto non avrebbe potuto coincidere con essa”.
A tale riguardo l’archeologa inglese contesta la tesi del Roncalli definendo “sensazionalistico il rapporto pubblicato dalla stampa” e continua affermando che, per intendere su quali presupposti il Roncalli basa la sua teoria, ” ci si deve accontentare della didascalia apparsa sul frontespizio di “Rasenna” in attesa che siano pubblicati gli Atti del “IV Convegno Internazionale di Studi Sulla Storia e l’Archeologia” tenutosi ad Orvieto nel 1987″ .
“Il busto … era un tempo ricoperto da una veste preziosa e variopinta di fittissime perline, la testa ravvivata dagli occhi in pasta vitrea, i capelli distinti come in una parrucca cinti in antico da un diadema d’oro: questa la verità recentemente recuperata, della più antica statua di culto etrusca … “.
• Il diadema d’oro di cui parla Roncalli, viene citato soltanto dall’Ulrichs che lo descrive come “formato da sottili lamine d’oro originariamente sostenute da qualche altro materiale, ha due semicerchi intagliati per le orecchie ed è ricoperto da motivi stampati a forma di archi intrecciati sovrastati da palmette, da elementi floreali isolati e da file di leoni e chimere” .
Si tratta più dettagliatamente, di una lamina d’oro a nastro rettangolare lunga 51 cm la cui altezza massima raggiunge i 6,3 cm. In origine la lamina era applicata ad una fascia di bronzo tramite delle appliques di cui rimangono dei forellini lungo i margini.
Il diadema è rastremato alle estremità ove sono due incavi semicircolari in corrispondenza delle orecchie .
La fitta decorazione, costituita da un fregio di due teorie contrapposte di leoni che convergono verso il centro racchiusi da chimere gradienti verso l’esterno e da un fiore di loto, è incorniciata da una treccia. Al disopra del fiore di loto, limitatamente allo spazio corrispondente alla fronte, è ancora una fila di leoni che si incontrano al centro, entro chimere in moto centrifugo e tre fiori di loto .
Il diadema, monile tutt’altro che frequente nelle tombe orientalizzanti etrusche – si ricordano quello della Tomba Avvolta di Tarquinia (perduto) e quello rinvenuto nel Tumulo della Pietrera a Vetulonia ed il pettorale e la fibula a disco della Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri -, per le affinità stilistiche con gioielli similarmente sbalzati, è databile alla metà del VII secolo a.C.
Rispetto all’insieme del corredo l’oggetto costituisce il più antico fra i reperti, la qualcosa potrebbe avvalorare le tesi avanzate da alcuni studiosi sulla “ricostruzione artificiale” del corredo della tomba operata dai Principi di Canino sulla base di due diversi corredi o sulla presunta natura di “cimelio tramandato nell’ambito familiare per più di una generazione”.
Riguardo poi all’associazione diadema-busto di bronzo proposta dal Dennis , questa cozza contro due dati oggettivi costituiti dalla diversa cronologia dei pezzi e dalla lunghezza del diadema che, misurando cm 53, non calza sulla testa del busto che ha una circonferenza di cm 26,9 .
La Gray riferisce che nella c.d. “Sala Egiziana” di Musignano, fra gli oggetti che i Principi Bonaparte affermavano di aver rinvenuto nella Tomba d’Iside, erano anche un gran numero di perline.
E sempre nel 1839 Hurlichs annotava fra i “lavori in pasta vitrea, una quantità straordinaria di piccoli anelli senza dubbio appartenenti ad una collana “.
• I grani in fayence, rinvenuti all’interno del complesso tombale, la maggior parte dei quali è conservata al British Museum, oltre a costituire elementi di collane e monili, sarebbero potuti essere stati utilizzati come ornamento per la veste del busto di bronzo.
La generica indicazione della presenza di questi elementi di pasta vitrea accanto alla successiva “dispersione” del corredo della Tomba, ha contribuito ad accrescere 1′ incertezza sul reale numero di questi grani.
La Haynes parla addirittura di “33.000 perline di fayence invetriata”, quantità di certo esagerata anche supponendo, come hanno asserito la Haynes stessa ed il Roncalli, una loro possibile utilizzazione come elementi di una veste.
Quando il Braun nel 1845 vendette al British Museum gli oggetti che a suo dire erano pertinenti alla Tomba d’Iside, del corredo facevano parte
• 7 scarabei.
Sulla reale attinenza di questi con l’insieme degli oggetti rinvenuti nella Tomba si potrebbero nutrire forti dubbi; in effetti nessuno fra coloro che ebbero modo di visitare nel 1839 la cosiddetta “Sala Egiziana” a Musignano, riferisce della presenza dei sette scarabei. Questa “lacuna” nei primi resoconti, le commistioni dovute a vicende legate al commercio antiquario e l’incerta lettura, che pregiudica 1′ affidabilità cronologica (tra Psammetico I, Necho, Psammetico II ed Amasis cioè fra il 664 a.C. ed il 526 a.C. rappresentano un ostacolo a considerare gli scarabei parte del corredo originario della tomba.
• Anche un cucchiaio d’avorio intarsiato, simile a quello rinvenuto nella Tomba del Guerriero di Vulci, e ad altri esemplari simili provenienti dalla Necropoli di Monte Tosto, presso Caere, attualmente al Museo di Villa Giulia entrò nel novero delle suppellettili provenienti dalla tomba.
Nell’elenco proposto dalla Haynes è compresa anche
• una fiasca (foto 3) definita dal Dennis “eg??tian vase” ,
• a cui segue l’ “Hydria della Polledrara” “ove è rappresentata una specie di processione divisa in due ordini che la cingono tutt’intorno “.
La scena ricordata è quella di Teseo che sta uccidendo il Minotauro davanti ad Arianna; vi è poi una danza di cinque donne la prima delle quali dovrebbe essere Arianna accompagnate da un suonatore di lira, forse lo stesso Teseo; i colori utilizzati sono il rosso, il bianco ed il blu. Si intuisce in quest’opera il tentativo di imitare forme metalliche da parte di artigiani locali i quali si sforzano di acquisire quella padronanza che favorirà poi l’introduzione in Etruria delle tecniche proprie al Medio e Tardo Corinzio come sottolineato dal Colonna e dallo Zevi.
A questo elenco vanno aggiunti
• due carrelli di bronzo. Entrambi decorati con protomi di cavallo, risalgono sicuramente ad una tradizione iconografica che rimanda, nel primo caso, ai cavalli con criniere presenti su un manico d’argento rinvenuto nella Tomba Bernardini di Palestrina e ai cavalli a sbalzo su una striscia di bronzo attualmente conservata presso la Ny Carlsberg Glyptothek; nel secondo caso l’iconografia più approssimativa rimanda alle teste di cavallo presenti su un tripode rinvenuto a San Vincenzo presso Campiglia Marittima; entrambi sono comunque riconducibili ad ambito più vulcente e databili alla prima metà del VI secolo.
• Inoltre furono rinvenuti un tripode la cui decorazione, che occupa la parte cilindrica superiore, permette di datare l’oggetto alla prima metà del VI secolo a.C. ,
• un tripode in miniatura e
• una lampada di bronzo su piedistallo dello stesso materiale che imita una tipologia esportata nel VII-VI secolo a.C.
All’elenco del materiale venduto dal Braun al British Museum vanno aggiunti
• una kylix greco-orientale dello stile della Capra Selvatica,
• un’anfora con un fregio multicolore di animali , un cavaliere ed una nave, datata fra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., per le analogie con le pitture della Tomba Campana di Veio,
un dinos di alabastro simile ad un pezzo rinvenuto nella Tomba dei Flabelli di Bronzo di Populonia; altri due grandi contenitori di alabastro,
• un fiasco piatto di bronzo, restaurato a più riprese e ricomposto in due metà; sei bacili di varia grandezza;
• due bacili perfettamente piatti;
• due urne biconiche con ornamenti a forma di elmo stampigliati sul collo ed anse alte ed intagliate;
• sei grandi coppe di bronzo su alto piede ed ansa sopraelevata; un piccolo tripode di bronzo;
• un disco di bronzo con decorazione a piccoli punti ed
• un piede di bronzo;
• due grandi bacili di bronzo restaurati con il gesso,
• un piede di bronzo riccamente decorato forse pertinente ad un’anfora tardo-arcaica e
• 130 rocchetti d’impasto.
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A. M. Moretti, Ricerche Archeologiche a Vulci, in Atti della Giornata di Studio Viterbo 1990, Tirrenoi Filotechnoi , Roma 1994.
F. Petrie, Naukratis-Excavations I, 1886.
L. Quilici – S. Quilici-Gigli, “Capitolium”, 51,1976.
D. Ridgway, Archaelogy in Central Italy and Etruria 1968-73, Archaelogycal Reports for 1973-74 , 1975.
F. Roncalli, L’ Arte, Rasenna , Milano 1986.
M. Sprenger-G.Bartoloni- M. Flirmer, Etruschi, L’arte, Milano 1981.
M. Torelli, Un uovo di struzzo dipinto conservato nel Museo di Tarquinia, StEtr., XXXIII, 1965.
P.E. Visconti, Memorie Istoriche della terra di Cariino scritte dal Cav. P.E. Visconti, Commissario delle Antichità, Viterbo 1843.
F. Zevi, Nuovi vasi del Pittore della Sfinge Barbuta. St. Etr. XXXVII , 1969.
APPENDICE
Si riportano in Appendice le notizie raccolte a seguito di una serie di rinvenimenti archivistici.
“Istanza di richiesta formulata il 27 Febbraio 1837 dalla Principessa Alessandrina al Cardinale Gatessi per scavare nella sua tenuta di Pian della Badia e precisamente in quella parte che porta il vocabolo di Doganella”.
La risposta affermativa viene rilasciata in data 1 Marzo 1837.
Nel lasso di tempo che intercorse fra il Marzo del ’37 ed il Novembre del ’38 la Principessa si era trasferita in Toscana.
All’E.mo e Rmo Principe il Sig. Card. Giustiniani, Camerlengo di S. Chiesa. Canino 3 Novembre 1838.
“La principessa di Canino avendo ottenuto nello scorso anno dall’ Emza Vra Rma la conferma di poter scavare nella sua tenuta pian dell’Abbadia ed annessi in un determinato vocabolo di terra, e spirando con i 15 del corrente Novembre l’anno di permesso all’ogetto sud°, rinnova 1 ‘istanza per proseguirlo …., desidera non limitare il lavoro ai quarti ed ai vocaboli della sua terra, e domanda la solita licenza di scavare però a sua volontà in tutta l’estenzione della sudetta Tenuta Pian dell’Abbadia….”.
A questa lettera della Principessa segui dopo appena 5 giorni la risposta del Camerlengo che, tramite il Delegato Apostolico di Civitavecchia, in data 8 Novembre 1838 annunciava “….il concesso permesso dato alla Principessa. Il Governatore faccia sorvegliare lo scavo e riferisca dei ritrovamenti.”
Alla concessione 27 Febbraio 1837 ne segue un’altra datata 17 Novembre 1838 in cui si autorizza la Principessa ad estendere gli scavi “sul luogo al vocabolo Ponte Sodo ch’è d’immediata attinenza all’altro già concesso di Doganella”.
Lettera datata 20 Dicembre 1838 in cui si ricorda il permesso accordato in base alla richiesta formulata dalla Principessa in data 8 Novembre 1838 “per riassumere gli scavi di ricerca di antichità nella tenuta in vocabolo Pian dell’ Abbadia”. In questa lettera è specificato anche che si incarica “il Governatore di Toscanella a prudentemente sorvegliare lo scavo e quindi a riferirmi dei trovamenti che potessero aver luogo”.
Di seguito l’incaricato al controllo dei lavori Gaetano Carini invia una serie di relazioni (redatte ogni 15 giorni) fra cui una datata
28 Febbraio 1839 a firma Gaetano Carini, relativamente agli scavi condotti nel vocabolo Pian dell’Abbadia al Delegato Apostolico di Viterbo
Dalli 16 a tutt’oggi si sono trovati n° 11 Cassoni, si sono aperte n° 10 Grotte, che in 8 di queste, non si è trovato, in alcune, niente, ed in altre dei cattivi ziri, ed in altri frantumi di cocci neri. Oggi stesso in un Cavone con due Grotte si è trovata una Statuetta Egizia in marmo bianco, alta circa 3 palmi con una mano rotta, e l’altra consunta e sofferta un poco dal fuoco . Una quantità di bronzi ridotti in pessimo stato e che si vedono serviti per più usi, meno qualche pezzo conservato di semplice lavoro, di minor pregio. Si sono trovate ancora n° 57 piccole spille d’oro, una quantità di sfoglie d’oro di circa il peso di un’oncia, e n° 30 vasi di diverse forme grandezza del sudd. stile Egizio, e parecchi frantumi di nessun pregio, e particolarità come sono i vasi sudd.i
E mi creda colla dovuta stima quale ho l’onore di segnarmi di V. S. Illma
Musignano 28 Febb. 1839
Alla fine del mese di Marzo gli scavi si interrompono e nel corso del 1839 ed i Principi di Canino si recano in Prussia.
Dopo la scoperta il corredo venne raggruppato nella “Stanza Egiziana” nella Villa di Bonaparte a Musignano e qui nel mese di Maggio 1840, alcuni mèmbri di una Sezione della Commissione Generale di Antichità e Belle Arti che per ordine del Cardinal Giustiniani “si era recata in Canino (Musignano) partendo da Roma il di 16 Maggio 1840, per osservare quanto è stato dissotterrato nella necropoli di Vulci”, ebbe modo di vedere i reperti di cui stilò il seguente “processo verbale”:
“…. Il vasellame poi e gli arredi trovati nella così detta grotta d’Iside, formando una collezione intera, e assai notabile per l’Archeologia, sono stati notati separatamente dalle altre robe, siccome anche a parte vengono serbati nel palazzo di Musignano. Evvi adunque una statua di pietra calcarea alta palmi quattro di antichissimo lavoro, vestita di lungo manto, e ornata il capo di un modio in foggia di un busto femminile, e sulla man destra tiene un falco di bronzo. Quindi vi sono raccolti, un carro votivo di ferro di forma rettangolare con quattro ruote di bronzo ai lati, e quattro teste di cavallo agli angoli, lungo palmi 2, largo palmi 1 e mezzo. Altro carro votivo tutto in metallo lungo palmi 2, largo palmi 1. Due colonnette di pietra bianca alte palmi 1, in ognuna delle quali evvi assisa una figura muliebre. Un busto di foglia di rame colla sua base. Un tripode di lamina di rame alto palmi 3. Un vaso di argilla a tré manichi, alto palmi 3 dipinto a vari colori, ove notasi spezialmente il rosso e il turchino, e rappresenta una specie di processione divisa in sue ordini che lo cingono tutto all’intorno. Un’olla grande 4 palmi con ivi dipinta una nave, e alcuni animali. Una tazza con fregiature quasi cancellate. Una lamina di oro finissima impresa da alcuni ordini di animali, e pare abbia servito di diadema. Cinque vasetti di terra di color turchino ornati di geroglifici nei lati, i quali sono stati interpretati dal Sig. Prof. Rossellini per la gloria data da un tal Ronpenofre ad Ammone, a Phath e alla dea Paset. Sei ova di struzzo con figure di ammali. Un balsamario di pietra calcarea lungo due palmi, la cui bocca è ornata di un gusto di donna. Una lampada di bronzo a quattro becchi. Un tripode di metallo alto once 15. Un vaso da unguenti della stessa pietra. Due scudi votivi di bronzo del diametro di quattro palmi. Una gran copia di globetti di vetro di varii colori. Dopo che furono osservati gli arredi e il vasellame dissotterrato in Vulci, andò la Sezione alla Necropoli per vedere la tombe, e poscia si condusse al luogo ove una volta era la città. Non fu possibile di scendere nella grotta appellata d’Iside , imperocché essendone state tratte fuori le cose trovate/ ne rimanendovi ornato alcuno, era stata riempita di terra. ……”.
Lettera inviata dalla Principessa di Canino il 29 Gennaio 1842 al Cardinale Giustiniani.
In questa missiva la Vedova Bonaparte, dopo aver ricordato che “… j’ai l’honneur d’attendre a Votre Eminence la reception de la permission de foiller… “, comunicava di aver venduto “… pour 2.000 S. …” alcuni materiali rinvenuti nella Campagna di Scavo del ’40 a seguito del mancato pronunciamento del Camerlengo se fosse o meno sua volontà autorizzare l’acquisto degli oggetti; attendeva inoltre una risposta al riguardo di quelli non ancora venduti fra cui era il materiale trovato nella “Grotte Egyptienne … incontestabiment egyptienne dans une terre d’Etrurie.”
Nella prosecuzione della lettera Alessandrina Bonaparte parla di tre statue rinvenute nella Tomba “… une de moyenne grandeur et deux petites..” ed afferma
“… Moi, pour exemple, pense que la moyenne sortout, est une statue d’Isis …” mentre “… Pére Ungarolli, … y voit une statue de la Deese Ferronia. ”
La Principessa prosegue asserendo che è sua convinzione ritenere “… cette Grotte la sepolture d’un des pretres d’Isis, martirisè dans une des justes o injustes persecutions contre Ies pretres lequel … eu une sepolture obscure mais honorable avec Ies objets de son culte. ” ed avanza l’ipotesi che la sepoltura sia conseguente a persecuzioni avvenute in epoca romana e conclude informando il Cardinal Giustiniani come “.. M.le (…..) Micalì, arquèologue allemande, me demandat permission de visiter cotte Grotte Egjptienne”.
“Processo verbale della Commissione Generale Consultiva di Antichità e Belle Arti del 28 Marzo 1842 in osservazione della lettera diretta da sua Eccellenza la Signora Principessa di Canino all’ Eminenza e Reverendissimo Signor Cardinal Camerlengo di S. R. Chiesa sotto lì 20 Gennaio 1842, in ossequio dei venerati ordini della ricordata Eminenza Sua.”
Nella lettera la Commissione comunica alla Principessa di Canino, erede delle proprietà del Principe di Canino Luciano Bonaparte, che “….il fornimento trovato nel sepolcro cui vien dato il nome di grotta d’Iside, non sia Egizio, ma piuttosto di stile Italico; e sebbene vi siano alcune fiale Egizie, non reca ciò maraviglia, trovandosi anche in altri sepolcri de’ balsamari , de vasellami di fattura Egizia, essendo sull’asserita qualità di Egizio consultato (da parte della Principessa di Canino) Padre Ungarelli, esso cui sono deposti gli oggetti stessi ….. . Sarebbe dunque da comperarsi il fornimento, come cosa Etrusca, se vi fosse documento, che attestasse essere stato tutto trovato insieme nel luogo medesimo. …. Rispetto poi alle stoviglie e dorerie vendute dovrebbe condursi la Signora Principessa ad osservare che la Sezione della Commissione andò .. a Musignano … e che dopo la descrizione che si fece (…) delle stoviglie più pregevoli, fu detto alla Signora Principessa di tenere in serbo le cose descritte che le vennero indicate, per udirne poi gli ordini. Ciò posto sapeva bene che la descrizione di ufficio dovesse tendere a qualche cosa. E ciò era appunto il trattar della compera, l’indugio poi venne cagionato dalla morte del Signor Principe di Canino, per la qual cosa venne sospesa la trattazione del contratto, non sapendo a chi dirigersi, ed essendo, a quanto si disse, ogni cosa suggellata per l’inventano, e la divisione dell’eredità. Il governo ha trattato convenevolmente, o i riguardi usati sembrano presi invece per pretesto di incuria. Innanzi di vendere la Signora Principessa poteva rivolgersi all’Eminentissimo Sigr. Cardinal Camerlengo, poiché non può pretendersi che egli debba accorrere a richiedere che gli siano venduti gli oggetti, ovvero essendovi una legge, che glieli assicura dopoché sono descritti; s’appartiene ai possessori d’implorare il permesso della vendita. L’avere venduto a Suddito Pontificio (Padre Ungarelli) non sembra che sia troppo acconcia difesa. (…)”
E sempre in risposta alla lettera della Principessa di Canino del 20 Gennaio 1848, la minuta di una lettera inviata dal Camerlengo in data 8 Aprile dello stesso anno specifica che “…..il Governo non è in grado di acquistare gli arredi di vasi Egizi, ed in seguito di ciò può Ella disporre liberamente come più le piaccia….”
Di seguito si mettono a confronto gli elenchi proposti dalla Haynes nel suo lavoro del 1977 con l’elenco redatto dalla Commissione di Antichità e Belle Arti nel mese di Maggio 1840.
Elenco Commissione di antichità e belle arti Elenco Haynes
Un busto di foglia di rame Statuetta femminile di culto in lamina bronzea
Statua di pietra calcarea Statua votiva in gesso alabastrino
6 uova di struzzo 5 uova di struzzo
Due colonnette di pietra bianca con assisa Due portaprofumi configurati
figura muliebre
Un balsamario di pietra calcarea Un vaso da unguenti
Base del busto di foglia di rame Due piedistalli di pietra
Una gran copia di globetti di vetro Perline
Un vaso di argilla a tre manici Un’hydria
3 alabastra che terminano con busto femminile
Una lamina d’oro Diadema d’oro
7 scarabei Un cucchiaio d’avorio
Carro votivo di ferro Carrello di bronzo
Carro votivo di ferro Carrello di bronzo
Un tripode
A questo elenco della Commissione di Antichità e Belle Arti va aggiunto il
materiale citato nella lettera della Principessa Alessandrina Bonaparte del 29
Gennaio 1842 che oltre a ricordare il Diadema d’oro e le 3 statue di cui una grande
e due piccole (Unguentari ?) parla anche di 1 Bacile di bronzo.
Un tripode di metallo alto once 15 Un tripode in miniatura
Una lampada di bronzo Una lampada di bronzo
Due scudi votivi di bronzo Un disco di bronzo
Un’olla
Un’anfora
Due tazze di pietra bianca Due grandi contenitori di alabastro
Cinque vasetti di terra ornati di geroglifici
Una tazza Kylix dello Stile della Capra Selvatica
Un dinos di alabastro
Fiasca piatta di bronzo
Una fiasca
Un calderone di bronzo
Sei bacili di bronzo
Due ciotole di bronzo perfettamente piatte
Sei grandi coppe di bronzo su alto piede
Due urne biconiche di bronzo
130 rocchetti di impasto
Brocca di bronzo a due anse
Due grandi bacini di bronzo
Piede di bronzo
VULCI, PARCO NATURALISTICO ARCHEOLOGICO
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